The Smashing Machine” non è solo il nuovo film con The Rock (Dwayne Johnson): è il racconto crudo e potente di uno dei personaggi più affascinanti e tormentati della storia delle arti marziali miste (MMA). Mark Kerr è stato una forza della natura, un gigante capace di dominare tra UFC, Vale Tudo e PRIDE, ma anche un atleta segnato da dipendenze, crolli e rinascite.

 

Il film di Benny Safdie parte proprio da qui: una storia vera, durissima, che The Rock ha deciso di interpretare trasformandosi completamente, fisicamente e non solo. Ma chi era davvero Kerr? Quanto c’è di reale nel film? E perché la sua figura continua a colpire così tanto gli appassionati di sport da combattimento?

 

In questo articolo ricostruiamo la sua carriera, il periodo d’oro in Giappone, le sue ombre e cosa aspettarsi dalla versione cinematografica.

 

Di cosa parla The Smashing Machine e chi sono gli altri attori oltre The Rock

 

The Smashing Machine” è uno dei film sportivi più attesi del 2025. A dirigere il progetto c’è Benny Safdie, nome già conosciuto per il suo cinema ruvido e realistico, mentre a dare corpo e volto a Mark Kerr troviamo Dwayne Johnson che per questo ruolo ha affrontato una trasformazione fisica e interpretativa molto diversa dal suo solito. Accanto a lui ci sono Emily Blunt, Ryan Bader, Bas Rutten e perfino il pugile imbattuto Oleksandr Usyk che porta sullo schermo uno degli avversari storici di Kerr.

 

Il film è prodotto da A24 insieme alla Seven Bucks Productions e ad altre realtà del settore, un mix che unisce l’attenzione autoriale al mondo indie con la potenza commerciale di un grande studio. Dopo l’anteprima a Venezia, è arrivato nelle sale internazionali in autunno e in Italia l'uscita è datata 19 novembre 2025.

 

La storia segue l’ascesa di Mark Kerr, uno degli atleti più dominanti e allo stesso tempo più fragili dell’era pionieristica delle MMA. Il racconto entra nel vivo della sua carriera, dal wrestling universitario ai tornei più violenti degli anni novanta, dai trionfi nella UFC fino all’esperienza in Giappone con la PRIDE. Ma soprattutto mette al centro il lato umano del personaggio, le sue dipendenze, le sue contraddizioni, il peso di un successo arrivato in un mondo che non aveva ancora regole precise e che spesso divorava chi lo abitava.

 

Safdie sceglie un approccio diretto e senza filtri, mostrando il campione sul ring ma anche l’uomo dietro la maschera. Ed è proprio questo equilibrio a rendere “The Smashing Machine” un film che non parla solo di lotta, ma del prezzo che si paga quando si decide di diventare, davvero, una macchina da combattimento.

 

 

La storia vera di The Smashing Machine: la carriera di Mark Kerr

 

Mark Kerr arriva dal mondo della lotta libera americana, un ambiente che ti forgia prima ancora di insegnarti a vincere. Cresce nell’Ohio, passa ore infinite sui tappeti delle palestre universitarie e diventa presto uno di quei talenti che non puoi ignorare. Nel 1992 si laurea campione NCAA Division I, un titolo che, per chi conosce la lotta, pesa come una cintura mondiale. Quegli anni gli hanno dato tutto: la forza nelle braccia, la capacità di portare a terra chiunque, ma soprattutto quella mentalità da grinder che ti permette di combattere anche quando il respiro manca.

 

È con questo bagaglio che Kerr entra nel selvaggio mondo del vale tudo, il precursore delle MMA moderne. Niente fronzoli, poche regole, tanta violenza sportiva allo stato puro. Qui, però, succede qualcosa: Kerr non è solo forte, è dominante. Le sue entrate in gabbia sembrano blitz militari, la sua lotta è troppo superiore a quella degli altri. Quando ti afferrava, finivi inevitabilmente a terra, e da lì partiva una tempesta di colpi e pressione che quasi sempre chiudeva il match. Un ground and pound dominante da cui nasce il soprannome “The Smashing Machine”, la macchina che schiaccia, che rompe, che controlla.

 

Il boom arriva quando sbarca in UFC, ancora agli albori ma già pronta a diventare la lega più famosa del mondo. Kerr ci entra grazie a Mark Coleman, amico, mentore, leggenda della loe tta libera delle prime MMA. E infatti funziona: Kerr vince due tornei consecutivi, si impone come uno dei pesi massimi più forti del pianeta e dimostra che la scuola americana della lotta può essere devastante in questo sport nuovo e ancora tutto da scrivere.

 

Ma la fine degli anni novanta non è un’epoca in cui la UFC domina già la scena mondiale. Anzi. È il Far West delle MMA. In Brasile ci sono tornei leggendari, negli Stati Uniti nascono promotion come funghi, e in Giappone la PRIDE sta diventando un fenomeno culturale. È lì, a Tokyo, dove combatterà gente come Fedor Emelianenko, un’icona assoluta del settore. Ed è lì che decide di andare anche Kerr, attirato dall’adrenalina, dai cachet, dall’energia quasi mistica che i giapponesi regalano alle arti marziali.

 

In PRIDE trova un palcoscenico enorme, folle, luminoso. E per un po’ sembra perfetto: vince, entusiasma, conquista il pubblico. Il suo stile è un marchio di fabbrica, sempre lo stesso ma sempre efficace: entra, abbatte, domina da terra. Una routine brutale ma bellissima per chi ama la lotta.

 

Poi però arriva la notte della verità. Il torneo del 2000. Kazuyuki Fujita dall’altra parte. Un match durissimo, una sconfitta ai punti che sembra spegnere qualcosa dentro di lui. Da quel momento la parabola cambia direzione: arrivano la seconda battaglia con Igor Vovčančyn, ancora durissima, poi la sconfitta con Heath Herring. Poi il ritiro momentaneo, il ritorno e intanto fuori dall’ottagono Kerr comincia a lottare contro avversari che non si battono con un takedown. Dipendenze, pressione, scelte sbagliate, fragilità personali che fanno più male di un pugno. Il suo record finale, quindici vittorie e undici sconfitte, racconta esattamente questa doppia vita: un inizio irresistibile e una lunga coda di declino.

 

Eppure, anche nella caduta, Kerr resta un personaggio gigantesco. Un atleta che ha vissuto tutte le contraddizioni dell’epoca pionieristica delle MMA e che si porta addosso un fascino tragico quasi cinematografico. Non sorprende affatto che un uomo come Dwayne “The Rock” Johnson, che il mondo del combattimento lo conosce dentro e fuori dal ring, abbia scelto proprio lui per una delle interpretazioni più intense della sua carriera.

 

La trasformazione fisica di The Rock e perché ha interpretato Mark Kerr nel film

 

Alla fine, anche se nessuno lo ha dichiarato apertamente, è difficile non pensare che Dwayne Johnson fosse davvero l’unico interprete possibile per raccontare la vita di Mark Kerr. La coincidenza, o forse la sinergia naturale, sta proprio nel suo ruolo all’interno di TKO, la holding che controlla sia la WWE, la casa in cui è nato il mito di “The Rock”, sia la UFC, il mondo che Kerr ha contribuito a definire negli anni Novanta. È come se le due strade della sua vita, quella del wrestling (tra finzione e realtà) e quella delle arti marziali miste, si fossero all’improvviso incontrate di nuovo, questa volta davanti a una cinepresa. 

 

E poi c’è la trasformazione, forse la più radicale della sua carriera da attore. Johnson ha sempre interpretato figure gigantesche, ma per diventare Kerr ha dovuto fare un passo ancora più estremo. Pur essendo già una montagna, ha dovuto mettere su un’altra decina buona di chili per restituire la massa e l’imponenza dell’atleta che interpretava, modellando braccia, spalle e torace su un corpo che sembrava già al limite umano. E non era solo questione di muscoli: il trucco e le protesi facciali lo hanno trasformato completamente, gli hanno dato un volto nuovo, spesso irriconoscibile. In molte scene sembra quasi scomparire, come se la superstar planetaria cedesse il posto a un uomo più fragile, più complesso, più vero.

 

Forse per la prima volta nella sua carriera, The Rock ha messo da parte il personaggio invincibile e ha accettato di raccontare la vulnerabilità. E il risultato sta attirando attenzioni importanti, perché i critici hanno già iniziato a parlare di una delle sue prove più mature, più intense. Se è vero che nel mondo del wrestling il suo ingresso era sempre annunciato dal celebre “If you can smell what The Rock is cooking”, allora si può dire che questa volta Johnson sta davvero cucinando qualcosa di speciale. E chissà che quel profumo non arrivi dritto fino alle grandi cerimonie dei premi cinematografici.